Teatro

Grande successo per Delbono e la sua compagnia

Grande successo per Delbono e la sua compagnia

In principio è la luce. Una luce accecante nella stanza bianca che è certamente sala d’ospedale, ma anche stanza mentale, un luogo figurativamente neutro nel quale Pippo Delbono inscatola Questo buio feroce, lo spettacolo che ha debuttato in forma di studio l’anno scorso al Festival delle Colline torinesi e poi, per passaggi e aggiustamenti progressivi, è approdato alla forma definitiva esibita alle Fonderie Limone di Moncalieri per lo Stabile di Torino. In quella luce, che al pari del buio sa essere feroce, appare un uomo seminudo e di disperante magrezza. E’ riverso al suolo. Sul volto ha una maschera piatta, tribale. Striscia verso la platea mentre arriva registrata la voce di Delbono, che svela con tono carezzevole l’incubazione dello spettacolo e racconta come tutto sia nato dalla lettura di un libro trovato per caso in una stanza d’albergo. Il libro s’intitola Questo buio feroce. Una pagina dopo l’altra, l’americano Harold Brodkey descrive il proprio avvicinarsi alla morte per Aids. Ed ecco quelle tre pareti bianche, di cui una sola può aprirsi verticalmente come una ferita o come un passaggio, ecco che dentro quelle pareti si anima un mondo che è in primo luogo ospedaliero, occupato da malati terminali e dominato dalla paura del contagio, che induce infermieri e inservienti a sigillarsi dentro scafandri da laboratorio ad alto rischio. Dentro quelle pareti si celebrano il dolore e la sofferenza. I malati sono numeri. Sacche di sangue salgono e scendono. Si praticano trasfusioni. Si svela soprattutto una instabilità che con Delbono acquista un valore spettacolare mai del tutto disperato e mai del tutto evasivo. Può così sfilare un’umanità che, uscendo da un realismo un poco grottesco, ha i contorni della fantasia e della favola: figure che si nutrono di tic, di esasperazioni, di deviazioni. Vediamo uomini in guêpière, donne alcoliche che indossano scialletti di pelliccia sugli indumenti intimi, l’uomo disperatamente magro che adesso canta al microfono «My Way» aggirandosi fra il pubblico come una star del music-hall e, alla fine dell’esibizione, riceve l’omaggio floreale di una valletta scintillante di lamé. E assistiamo alla revisione in chiave farsesca della favola di Cenerentola alla prova della famosa scarpina. Troviamo un momento di soave divertimento con le gag di Bobò e di Gianluca Ballaté vestiti come due Arlecchini di Picasso. E sempre loro, Bobò e Ballaté, dopo avere giocato a nascondino ai due lati della scena, si fanno testa e coda di una catena umana che ha, al posto degli anelli, gli instabili abitatori di quel luogo che è di cura e insieme di fantasticheria. A differenza di altre volte, Delbono non si concede molto spazio. A parte gli interventi registrati, arriva poco prima della fine con un’esibizione tra fisicità e parola, cita Artaud oltre che Brodkey, si inoltra in un sentiero segnato dai sentimenti forti legati all’idea della morte, alla nostalgia, all’utopia della speranza. E’ più emotivo che ragionativo. Un po’ come tutto il suo spettacolo proteso verso una leggerezza che, probabilmente, vorrebbe esorcizzare il male senza però negarlo, lo riveste di immaginosità hollywoodiana, lo inzuppa di musiche ammalianti (Aznavour, Joan Baez), fondandosi su una compagnia di attori ormai diventati i beniamini di un vasto pubblico. Moltissimi applausi.